di Francesco Macrì
Il problema.
Il parto e la nascita di un figlio rappresentano un evento molto complesso e, a causa dei cambiamenti di tipo biologico, sociale e psicologico che ne derivano, la donna ha bisogno di notevoli risorse personali per affrontare il necessario processo di riorganizzazione dei rapporti sociali e di coppia. Tutto ciò può comportare nella neo-mamma disturbi psicologici di varia intensità che vanno dalla forma più lieve (Maternity Blues), più precoce, che in base alla elevata incidenza può essere considerata parafisiologica, fino al quadro rilevante, più tardivo, rappresentato dalla “depressione perinatale” vera e propria.
Sicuramente molto rari quadri clinici più complessi come la “Psicosi Puerperale” e il “ Disturbo da Stress Post-Traumatico da Parto” ,che assumendo le caratteristiche di una vera e propria patologia psichiatrica, non verranno considerati ai fini della nostra trattazione.
Le ripercussioni della depressione materna sul comportamento del bambino possono essere rilevanti e di vario tipo, provocando sintomi cosiddetti “psicosomatici”, come disturbi del sonno, inappetenza, pianto, coliche, ma anche disturbi o sintomi di tipo psichiatrico significativi, tra quelli più rilevanti descritti dalla neuropsichiatria infantile e che sono i disturbi dello sviluppo e i disturbi dell’umore e del pensiero.
Scopo di questo capitolo è indicare le conseguenze che può avere la “depressione perinatale” sul bambino, sia direttamente nel periodo di contatto del bambino con la mamma depressa, sia indirettamente negli anni successivi e come il pediatra possa individuare, nella sua pratica quotidiana, situazioni in cui le mamme, nel periodo di tempo che segue il parto, mostrino atteggiamenti in grado di far sospettare una situazione depressiva, al fine di orientare l’approccio terapeutico in modo corretto, di dare una spiegazione più adeguata ad eventuali sintomi presentati dal bambino e di prevenire inoltre le ripercussioni sul suo futuro psicologico e mentale.
Quali sono i principali sintomi funzionali (psicosomatici) del bambino ?
Vale la pena di sottolineare come storicamente alcuni sintomi ed alcune manifestazioni cliniche dell’infanzia possano avere spesso, anche se non sempre, una interpretazione di tipo funzionale, rientrando in quadri definibili, con una terminologia probabilmente desueta, come “psicosomatici”. Ci riferiamo, ad esempio, ai disturbi del sonno, alle coliche nel bambino più piccolo, alla cefalea, ai dolori addominali, addirittura ai sintomi respiratori nel bambino più grande, ogniqualvolta sia possibile individuare una genesi psicologica alla base di essi.
Ovviamente alla base di tali quadri clinici sono rintracciabili spesso fattori legati alla quotidianità della vita del bambino, alle situazioni che inevitabilmente possono verificarsi nella vita di tutti i giorni, pensiamo alle tensioni legate all’attività scolastica o all’agonismo sportivo, pensiamo al modo, a volte distorto, in cui il bambino può vivere qualunque episodio possa verificarsi nell’ambito delle varie attività che è chiamato a svolgere: sempre, comunque, il passaggio da questi episodi o situazioni al sintomo è mediato dalle tensioni che essi sono in grado di provocare.
Ma oltre alle situazioni, agli episodi, è facile ammettere come, più o meno direttamente, anche problemi legati al rapporto del bambino con l’adulto possano ,influenzando il comportamento psicologico del bambino, comportare l’insorgenza di una sintomatologia specifica o, comunque, aggravarne il decorso se preesistente, e ciò sia direttamente a causa della stessa modalità in cui l’adulto si rapporta al bambino, ma anche, indirettamente, a causa del comportamento emotivo e psicologico che caratterizzano il suo modo di interagire con il bambino.
La depressione materna influisce, ad esempio, sull’intensità e la durata delle coliche (Radesky et al) e Manzoni et al riportano una correlazione tra ansia e depressione degli adulti che si occupano del bambino e sintomi cutanei di quest’ultimo (eczema, psoriasi). Altri autori hanno evidenziato come atteggiamenti depressivi dei “Care Givers” sono correlati all’asma del bambino: nostri dati , ancora non pubblicati, mostrano che l’asma del bambino si correla all’Alessitimia materna e che se mamme di bambini asmatici Alessitimiche si sottopongono ad una fase terapeutica che va sotto il nome “tecnica della scrittura”, il miglioramento del loro punteggio di Alessitimia si accompagna ad un miglioramento dei sintomi respiratori del loro bambino.
Possiamo anche immaginare che la rilevanza del comportamento dell’adulto, nel determinismo di sintomi su base psicosomatica del bambino, sia maggiore di quella degli episodi legati alla quotidianità, proprio nei primi 1-2 anni di vita, quando il rapporto con l’adulto rappresenta per il bambino la maggior opportunità di sviluppo del comportamento. In particolare non può sfuggire il ruolo che in tale ambito può essere attribuito alla depressione materna perinatale.
Un’altra importante considerazione è rappresentata dal fatto che, pur essendo incontestabile che atteggiamenti psicologici o emotivi negativi da parte dei genitori o dell’adulto “care giver” in generale siano in grado di provocare, o comunque aggravare se preesistenti, quadri clinici del bambino e che, addirittura, il miglioramento dei sintomi dell’adulto può portare ad un miglioramento dei sintomi del bambino, è anche vero che la malattia di un figlio, soprattutto se ad andamento cronico, è in grado di suscitare, come conseguenza, sintomi di disagio emotivo o psicologico nei genitori.
Il meccanismo attraverso il quale il comportamento dei genitori può avere ripercussioni sul bambino può essere spiegato, oggi, sulla base delle nozioni sulla Epigenetica, la disciplina che indaga su come fattori ambientali di vario tipo, e tra questi anche lo stress psichico, possano modulare e modificare l’espressione fenotipica del patrimonio genetico dell’individuo. In pratica è possibile ammettere che lo stress psichico cui è sottoposto il bambino a causa del contatto quotidiano, o comunque frequente, con adulti ansiosi o depressi sia in grado di condizionare l’espressione fenotipica dei suoi geni, con il risultato di influire, modificando le produzione di neuromediatori nel caso di sintomi di comportamento o di citochine nel caso di sintomi cutanei o respiratori su base infiammatoria(Wright RJ) , sulla intensità e la gravità dei sintomi della sua malattia . Ma, ai fini pratici, più che il meccanismo biologico soggiacente, interessa la direzione del rapporto di causalità, in modo da comprendere se è l’adulto ad influire sul bambino o viceversa.
Quali sono i principali disturbi psichiatrici del bambino ?
Secondo i dati del OMS dal 7 al 10% dei bambini e degli adolescenti è esposto al rischio di malattia psichiatrica e vari quadri, come l’ansia, l’anoressia, la bulimia, i disturbi della condotta sono in realtà più frequenti di quanto si sia portati a ritenere e possono avere un esordio improvviso quanto imprevisto.
I principali disturbi psichiatrici del bambino sono rappresentati da “disturbi dello sviluppo” (disabilità intellettiva, disturbi dell’appredimento, ADHD, autismo…) e da “disturbi dell’umore e del pensiero “(disturbi d’ansia, del comportamento alimentare,del sonno…) per citare i principali.
I disturbi psichiatrici dell’età infantile, pur rappresentando, quando si verificano, un problema rilevante per la famiglia, colgono spesso il pediatra impreparato alla loro gestione. Impreparato sia nell’individuare le cause, sia, soprattutto, nell’impostare adeguate strategie di terapia
Va segnalato che tali disturbi hanno mostrato un aumento di incidenza negli ultimi 2 o 3 decenni .Nel nostro paese 30.000 bambini e 300.000 adolescenti soffrono di depressione e sono poco meno di 100.000 i minori che soffrono di autismo, mentre oltre un milione di bambini e di adolescenti presentano un disturbo nella sfera dell’apprendimento o un disturbo da deficit di attenzione, della condotta o legato ad abuso di sostanze. La conferma della rilevanza del fenomeno si ottiene dai dati ISTAT del 2006 che indicano un notevole aumento del numero di ricoveri psichiatrici tra il 1999 e il 2003.
Jaju S et al segnalano come in un ampio campione di studenti il 13.9% , in base alle risposte a questionario, può essere inserito in almeno una delle categorie di disturbi mentali previsti dal DSM IV e Kessler RC et al concludono come il disturbo d’ansia e il disturbo del comportamento dirompente compaiano molto precocemente .
Tra i fattori correlati al determinismo di tali patologie dobbiamo considerare la ereditarietà, la neurobiologia, i fattori ambientali.
Che ci sia una base ereditaria è dimostrato dal fatto che le malattie psichiatriche ricorrono più spesso all’interno delle stesse famiglie e molte alterazioni genetiche sono state dimostrate nei pazienti psichiatrici, mentre il ruolo della neurobiologia è confermato dalla descrizione di specifiche alterazioni biochimiche di tipo neurotrasmettitoriale.
I fattori ambientali devono essere presi in considerazione sulla base di dati epidemiologici e possono essere rappresentati dalla prematurità, da fattori nutrizionali, dall’inquinamento ambientale, dall’esposizione al fumo e all’alcol in gravidanza . Dati contrastanti riguardano le vaccinazioni.
Il parto pretermine è la situazione più ampiamente studiata per quanto riguarda le correlazioni con lo sviluppo neuro cognitivo, soprattutto considerando che le attuali tecniche di assistenza neonatale consentono la sopravvivenza anche in neonati di peso superiore ai 500 g, quindi nati intorno alla 25° settimana di gestazione.
Perricone G et al studiando un gruppo di 50 bambini moderatamente pretermine (34° settimana di gestazione) descrivono, rispetto al gruppo di controllo, una significativa riduzione della capacità di attenzione, per certi versi segno preliminare di una situazione di Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) nelle età successive, conseguenza comunque prevenibile, secondo gli autori, con un adeguato programma di training . In altri lavori si segnala come bambini di peso molto basso per età gestazionale presentano performances cognitive ridotte all’età di 9 mesi, ma un recupero significativo all’età di 2 anni (Paulson Jf et al), d’altro canto Lohaugen et al rintracciano disturbi della sfera cognitiva anche nell’adulto di peso molto basso alla nascita. Vari fattori dovrebbero comunque essere presi in considerazione come potenzialmente influenti sull’outcome neurocognitivo dei bambini pretermine in quanto secondo Voigt et al la sola valutazione del peso raggiunto alla nascita non chiarisce completamente i meccanismi alla base del problema . Dopo la nascita il tipo di alimentazione può avere rilevanza ai fini di un normale sviluppo neuro cognitivo: il latte materno viene spesso indicato come un fattore importante in tal senso, anche se non tutti i lavori portano a considerazioni univoche: Hoque MM et al non trovano differenze in termini di sviluppo psicomotorio tra bambini alimentati esclusivamente al seno per 6 mesi rispetto al gruppo di controllo e, almeno in parte, queste discrepanze possono essere spiegate sulla base delle differenze di effetto tra le componenti Omega-3 e Omega-6 della dieta (Milte CM et al).Il problema è reso ancora più complesso dalla intercorrelazione tra i vari fattori, così l’effetto positivo dell’allattamento al seno è più marcato nei bambini di peso alla nascita inferiore ai 2.500 g (Hoque MM et al).
Fattori nutrizionali sono spesso chiamati in causa anche nei disturbi maggiori del comportamento caratterizzati anche da deficit cognitivi,come l’Autismo e la ADHD, vedi i lavori di Adams JB et al relativi agli alterati parametri nutrizionali nei bambini autistici e di Cannell JJ et al relativi alla correlazione tra gravità dell’autismo e livelli ematici di Vit D che sarebbe coinvolta nei meccanismi di DNA-repair.
Aspetti più complessi riguardano i paventati effetti delle vaccinazioni , in particolare per l’autismo viene evocato un rischio correlato alle vaccinazione MMR. (Wakefield et al), anche se negato con gli approfondimenti successivi in indagini epidemiologiche di ampia portata.
Il notevole aumento dell’incidenza di tali disturbi in età pediatrica porta ad invocare, come è avvenuto per altri problemi di salute dell’età pediatrica, cause di tipo ambientale legate ai cambiamenti dello stile di vita nel mondo occidentale (west life style). Così, come è avvenuto per l’Hygiene Hypothesis per le malattie allergiche, che correla l’aumento di incidenza di esse alle strategie adottate per le riduzione di incidenza delle malattie infettive (Strachan D et al), abbiamo anche la constatazione che l’inquinamento ambientale, attraverso la esposizione a vari elementi chimici con impatto sul SNC, è in grado di provocare deterioramento della sfera cognitiva, come indicato da Sinha C et al, che mostrano in animali di laboratorio deterioramento delle attività di apprendimento e di memoria a seguito della esposizione in gravidanza e subito dopo la nascita ad isetticidi , oppure i lavori che dimostrano correlazione tra fumo e alcool in gravidanza e ridotto volume cerebrale in bambini affetti da ADHD (de Zeeuw P et al) e tra esposizione a traffico veicolare e iperattività come indicato da Newman NC et al.
Lo stile di vita occidentale ha però anche ripercussioni in modo diretto sul comportamento individuale, a causa dei cambiamenti che ne conseguono a livello culturale, sociale ed economico, se è vero, ad esempio, che la cosiddetta “crisi adolescenziale” è un fenomeno spesso sconosciuto nei paesi in via di sviluppo .
Ma se è vero che fattori di tipo “organico” (dieta, peso alla nascita, vaccinazioni, inquinamento, esposizione a fumo o alcol) o di tipo socioculturale possono avere un ruolo , in certi casi anche rilevante, nell’influenzare lo sviluppo neurocognitivo del bambino, è anche vero che è molto vivace l’attenzione rivolta allo studio di fattori di tipo ambientale più prettamente funzionali legati, in diversa misura, alle dinamiche del rapporto del bambino con l’adulto, in particolare con i genitori, in particolare con la mamma. Sappiamo, infatti, che varie figure di “care givers” possono entrare nel gruppo dei personaggi coinvolti, come insegnanti di scuola , oppure trainers sportivi, sicuramente, però, ai primi posti, troviamo la figura materna. Non sfugge come la figura materna, facendo riferimento a quanto succede, ad esempio, durante l’adolescenza per alcuni dei principali problemi dell’acting out come l’Anoressia Mentale oppure i disguidi della sfera sessuale (omosessualità, travestitismo), finisce per essere indicata come uno degli attori principali (Sours JA, Stoller J)
Al nostro gruppo è capitato di descrivere come fattori psicologici materni siano correlabili alle manifestazioni cliniche dell’asma del bambino (Macrì F et al), con ripercussioni anche su alcuni aspetti del comportamento.
Certamente un periodo particolarmente delicato per i rapporti tra mamma e bambino è rappresentato, per vari motivi, dal primo anno di vita.
Il ruolo materno è sottolineato nella sua rilevanza in questa fascia d’età dalla “teoria dell’attaccamento” che porta a definire come il comportamento materno nel rapporto con il bambino possa essere determinante per lo sviluppo emotivo e cognitivo di quest’ultimo (Schore AN).
E’ proprio questo periodo dei primi mesi di vita, questo periodo di particolare plasmabilità del bambino, coincide con il periodo in cui la mamma può andare incontro con una certa frequenza a disturbi di tipo psicologico raggruppati sotto la definizione generica di “depressione perinatale”.
Può la depressione materna perinatale avere conseguenze sul bambino? Può il pediatra intercettarla?
Il pediatra rappresenta la figura medica che, per ovvi motivi, sta a più diretto contatto con la mamma nel periodo che va dal parto ai primi anni di vita del bambino. Dopo la dimissione dal punto nascita la prima visita da parte del pediatra avviene normalmente intorno al 15° giorno di vita del bambino e, nel primo anno, valutando esclusivamente le visite di controllo di salute, il bambino viene visitato 6-7 volte e ogni volta, il pediatra, ha la possibilità di verificare oltre alle condizioni di salute del bambino, anche la situazione materna. La maggior parte delle volte l’attenzione nei confronti della mamma si limita a considerare sintomi o segni di significato esclusivamente organico, come il pallore, il dimagramento, ed esclusivamente per i riflessi che tali aspetti possono avere sulla adeguatezza dell’apporto alimentare, ad esempio, nel caso dell’allattamento al seno. Eppure i problemi di tipo psicologico od emotivo sono anche più rilevanti, sia in generale ma anche in particolare per quanto riguarda la salute stessa del bambino.
La stessa funzione dell’allattamento al seno non ha valenza esclusivamente di tipo nutrizionale ma contribuisce anche ad una adeguata evoluzione delle prime acquisizioni di tipo emotivo, psicologico e cognitivo del bambino.
Per spiegare tale concetto bisogna avere in mente le varie fasi dell’allattamento . C’è una fase preliminare, chiamata “negoziazione “, seguita dalla fase del “pasto affamato”, poi, concluso il pasto, c’è la fase della “conversazione” e quindi quella del “piacere congiunto”. Le quattro fasi dovrebbero svolgersi, idealmente, in una situazione di perfetta armonia tra la mamma ed il bambino, basata sul modo in cui la mamma comunica con il bambino, in cui lo tiene in grembo, in cui lo guarda, in cui gli porge il seno etc…e sul modo in cui il bambino si attacca al seno, al vigore con cui succhia il latte, tenendo la manina chiusa ma non serrata, appoggiata al seno, con le gambe semiflesse, etc. Proviamo invece ad immaginare cosa succede se la mamma non partecipa secondo queste modalità, non lo pone in grembo ma, ad esempio, sdraiato sul lettino e offre il seno dall’alto, senza nessun contatto fisico vero e proprio, spesso senza neanche guardarlo; il bambino vede evasa ogni possibilità di comunicazione, rifiuta di alimentarsi, lascia cadere il latte dalla bocca, a volte arriva anche a vomitare: la relazione a questo punto è distorta in modo , a volte, anche rilevante. Questo è quanto può succedere ad esempio quando la mamma è presa da altri problemi, di vario tipo, economico ad esempio, o di rapporti con il coniuge, o fisici, ma è anche ciò che succede nel caso di una situazione depressiva.
Queste considerazioni ci portano a porre l’attenzione sulla depressione materna perinatale, che, come è possibile immaginare, non avrà conseguenze soltanto su ciò che succede durante il pasto al seno e, considerando la sua incidenza , è senza dubbio importante analizzare in modo approfondito le conseguenze che , in generale, essa può avere sulla salute del bambino, sia in termini di disturbi di tipo funzionale che di sintomi fisici o psichiatrici veri e propri.
I sintomi cosiddetti funzionali sono , in generale, immediati : Akman I e coll descrivono che la depressione materna può favorire le coliche del bambino e anche problemi del sonno, come indicato recentemente da Hiscock H et al , mentre Cicchetti D e coll lasciano intendere come il range dei disturbi del bambino conseguenti alla depressione materna può essere molto ampio . Altrettanto importante è l’effetto che la depressione può avere nell’esaltare la preoccupazione da parte della mamma anche per sintomi non rilevanti del bambino (Umboh et al), creando, come è facile capire, una rapporto stretto tra depressione e stress emotivo legato ai timori per la salute del proprio figlio.
E’ certo, comunque, che lo studio dei rapporti tra depressione materna perinatale e sintomi del bambino può essere reso complicato dalla presenza di altri fattori di tipo sociale, ambientale, fisico che possono interferire in tale valutazione (Howell EA et al).
Non tralasciando, tra l’altro, la potenziale bidirezionalità dell’effetto, per cui se è vero che la depressione materna post-natale può favorire dei sintomi nel bambino, è anche possibile un effetto inverso: la depressione materna influisce sull’intensità e la durata delle coliche (Radesky et al) e, contemporaneamente, il pianto intenso e prolungato del bambino può provocare stress psichico significativo per la mamma (Kim et al , Vik et al). Ciò può comportare una sorta di circolo vizioso che rischia di automantenersi.
Le conseguenze possono essere , però, di portata più ampia e individuabili anche nelle età successive del bambino; Righetti-Velterna M et al, ad esempio, le illustrano per i 18 mesi di età , anche se i fattori coinvolti sono talmente articolati da rendere tali valutazioni molto complesse (Wan MW, Green J).
Negli anni a seguire ci possono essere problemi di tipo fisico come avviene, ad esempio, per l’accrescimento: O’Brien LM et al segnalano un accrescimento in peso ridotto a 2 anni nei bambini di mamme affette da depressione perinatale e Surkan P J et al a 4-5 anni conseguenze sia sul peso che sull’altezza. Il problema è quindi rilevante, nonostante alcuni lavori tendano a negare tali effetti (Grote V et al).
Dati ancora più preoccupanti riguardano le conseguenze della depressione perinatale materna sulla salute psiconeurocognitiva del bambino. Lyons-Ruth e coll descrivono a 18 mesi una riduzione del livelli cognitivi e a 12 mesi una funzione di “attaccamento” alterata . Murray L e coll, sempre a 18 mesi, rilevano disturbi del sonno , dell’appetito e del temperamento , inoltre gli autori sottolineano che, non essendoci una correlazione tra gravità della depressione materna e entità dei disturbi del bambino, è probabile che altri fattori possano essere coinvolti, come le dinamiche dei rapporti intrafamiliari (Weissman MM et al), oppure situazione socioeconomica o problemi nel rapporto con il padre del bambino (Rutter M et al). L’apprendimento scolastico può essere anche penalizzato e non solo nella fascia di età scolare ma anche a livello di scuola media superiore (16 anni) , come indicato da Murray L e coll . Altri lavori sono invece dedicati a problemi psichiatrici più complessi, in particolare alla ADHD: bambini di 6-7 anni figli di mamme affette da depressione perinatale, secondo gli studi di Sciberras E et al, hanno un rischio maggiore di sviluppare l’ADHD, dati confermati anche da Sagiv SK et al in bambini di 8 anni, In questo studio viene segnalata anche la concomitanza di altri fattori coinvolti, come basso livello educativo, esposizione al fumo passivo.
E se colpisce la constatazione del protrarsi nel tempo del rischio di conseguenze negative sulla salute del bambino, si resta addirittura sgomenti di fronte alle segnalazioni di problemi di gravità estrema come l’infanticidio. (Barr JA et al, Mastronardi et al).
Da queste considerazioni ne deriva che è particolarmente importante che il pediatra riesca ad individuare le situazioni che suggeriscano una probabile depressione materna , perché dalla possibilità di intercettarla, di gestirla e, per quanto possibile, di risolverla, ne può derivare un vantaggio significativo per la salute per la mamma e, di conseguenza, del bambino.
Il pediatra, d’altronde, si può trovare di fronte ad una situazione in cui il disturbo depressivo della mamma ha ripercussioni sul bambino che può manifestare il suo disagio, ad esempio, con coliche prolungate e che va affrontata curando la depressione materna, oppure di fronte alla situazione del bambino affetto da coliche intense, tali da creare nella mamma disagio, ansia, preoccupazione e che si può risolvere semplicemente con modifiche sulla alimentazione, come dieta alla mamma che allatta o scelta di un latte diverso nel bambino non più alimentato al seno.
E importante avere la possibilità di distinguere tra le due situazioni in modo da poter modulare adeguatamente il proprio intervento in termini di consigli, di supporti, di consulenza, fino anche alla prescrizione di terapie o alla richiesta di interventi da parte di colleghi specialisti.
Una possibilità è offerta dalla somministrazione alla mamma di un questionario standardizzato per lo screening di stati depressivi materni e sono numerosi i lavori che indicano la validità del questionario Edinburgh Postnatal Depression Scale-EPDS (Umboh SJ et al), (Wickberg B et al). Lo score di valutazione è compreso tra 0 e 30 e per valori superiori a 10 indica atteggiamenti depressivi materni.
Ecco un esempio:Ludovica (caso clinico reale con nome di fantasia) è una bambina di 8 mesi. La mamma riferisce di aver subito presentato, dopo il parto, sintomi di tipo depressivo che da circa un mese affronta con farmaci e che, intorno al secondo-terzo mese dopo il parto, la inducevano a star da sola per sentirsi meglio, lasciando il più possibile la bambina nel suo lettino nella stanza tra una poppata e l’altra, poppate che avvenivano con la bambina in posizione orizzontale sul letto e la mamma che offriva il seno dall’alto. Da quando assume farmaci, dopo la sospensione del latte al seno, la mamma si è sentita in grado di poter provare di nuovo a giocare con la bambina, ma la bambina sembra non vederla e non reagisce ai sui tentativi di stimolarla, come se non sentisse. La bambina presenta un test di Boel (test che valuta la funzione uditiva) negativo, in pratica non mostra reazione alcuna al suono di campanelli standardizzati, ma sottoposta a test audiologici più specifici (potenziali evocati) risulta normale. La mamma presenta (in terapia con antidepressivi) uno score di 16 al EPDS.
Ci sono comunque anche alcuni elementi di immediata considerazione che possono avere significato nel far sospettare atteggiamenti depressivi materni.
Spesso il medico sulla base del comportamento del paziente in occasione della visita si fa un’idea su quel paziente, utile sicuramente nell’impostare la visita, a volte addirittura la decisone terapeutica. Così il pediatra sa bene che esistono diversi tipi di comportamento dei bambini in occasione della visita, dal bambino che rifiuta di entrare nella stanza, al bambino che fugge, a quello che piange disperato durante tutta la visita, a quello che se ne sta tranquillo, a quello che addirittura abbraccia il medico.
Non può il pediatra sfruttare la sua sensibilità e la sua esperienza per stabilire, in modo analogo, dei criteri utili per individuare le mamme depresse nel periodo successivo al parto? O, viceversa, intuire di trovarsi di fronte a problemi del bambino che influiscono sulla emotività materna?
E’ più probabilmente depressa la mamma che non riesce a protrarre l’allattamento al seno, oppure la mamma che manifesta una scarsa attenzione al bambino, ad esempio lasciandolo nella carrozzina e non tenendolo in braccio durante il colloquio, delegando al papà o alla nonna le operazioni di vestire o spogliare il bambino, oppure la mamma che non rivolge al pediatra le domande tipiche alla fine della visita. Ecco questi possono essere le “red flags”, indicative della mancanza di quel rapporto comunicativo e di contatto ottimale tra la mamma e il bambino che , con una terminologia attuale, viene definita “sintonizzazione”.
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